Alla base di una buona didattica c’è la consapevolezza delle scelte. E tale consapevolezza può essere conseguita solo a condizione di utilizzare al meglio gli elementi di informazione già disponibili o che possano essere specificamente reperiti. Tuttavia, la molteplicità degli elementi che concorrono a determinare una situazione nella quale venga comunicato un messaggio didattico richiede che si disponga di un criterio per assumere e per organizzare le informazioni. In caso contrario, può accadere sia che sfuggano aspetti importanti, ma ai quali non viene rivolta una specifica attenzione per la casualità con la quale si procede alla raccolta dei dati, sia che si affastellino informazioni che non si sa bene come riferire alle varie funzioni didattiche. Di conseguenza, un criterio per organizzare le informazioni non può che riprendere una interpretazione generale della didattica. Vorrei richiamare, per la chiarezza con la quale sono formulati, gli elementi costitutivi di una didattica sistematica, così come sono stati fissati da Johann Clauberg, un filosofo cartesiano tedesco del XVII secolo, nella sua opera Logica vetus et nova. Innanzi tutto, occorre che sia reso esplicito il contenuto dell’azione didattica (quid sit tradendum) e l’intento che si vuole perseguire (quo fine). Vanno quindi individuati i soggetti della didattica, che si distinguono per la specificità della loro azione: quis traditurus, quis accepturus. Infine occorre costruire l’azione attraverso la quale l’intento può essere conseguito, effettuando le scelte più opportune (quomodo quid tradere conveniat). In breve, secondo Clauberg, la didattica si precisa attraverso scelte, che riguardano le conoscenze che si ritiene utile trasmettere per qualificare in una direzione desiderata il quadro socioculturale in cui si interviene.
Per far ciò, occorre prestare attenzione alle caratteristiche degli insegnanti e degli allievi. È interessante osservare che Clauberg usa forme verbali orientate al futuro (traditurus, accepturus): dobbiamo intendere che l’attenzione nei confronti delle caratteristiche di allievi e insegnanti costituisce sia un requisito iniziale per la didattica, sia una necessità che accompagna il suo svolgersi verso il conseguimento di un intento determinato. È solo da scelte esplicite e coerenti per ciò che riguarda le conoscenze da trasmettere e gli intenti perseguiti, e dalla precisa definizione delle caratteristiche dei soggetti destinati ad interagire che possono discendere criteri per la selezione delle modalità concrete dell’intervento. A tali modalità non si riconosce una validità in sé, ma solo in riferimento alla loro funzionalità rispetto alle scelte culturali, agli intenti da perseguire e alle caratteristiche di insegnanti ed allievi.
Le risposte ai tre nuclei problematici indicati da Clauberg saranno più o meno capaci di consentire uno sviluppo positivo della didattica a seconda dell’ampiezza e della qualità delle informazioni delle quali disponiamo. È come dire che la proposta didattica potrà variare, rispetto alle esigenze di chi apprende, da un massimo di indeterminatezza ad un massimo di specificità, a seconda degli elementi che è stato possibile prendere in considerazione per assumere decisioni che abbiano conseguenze sui comportamenti. Ma potremmo anche dire che decisioni effettive, capaci cioè di indirizzare gli eventi in una direzione desiderata, derivano solo dalla disponibilità di riferimenti conoscitivi specifici. Se tale condizione non si realizza, la didattica assume l’aspetto della stanca ripetizione di modelli in qualche modo interiorizzati, ai quali tuttavia non corrisponde una precisa consapevolezza.
Ai quesiti formulati da Clauberg si può tentare di dare risposta in due modi:
– il primo consiste nell’aggregare gli elementi di cui si dispone, allo scopo di individuare soluzioni preferibili per i problemi della formazione. Questo primo modo di rispondere equivale alla affermazione di un primato del metodo didattico;
– il secondo modo richiede che si tenga specifico conto dell’informazione relativa ai singoli allievi, individuando così altrettanti problemi di formazione. In questo secondo caso si riconosce un primato alla strategia didattica.
Fino a qualche decennio fa la ricerca didattica ha proceduto riconoscendo il primato del metodo; negli anni più recenti c’è stato un cambiamento di rotta a favore del primato della strategia. Alla base di un cambiamento così radicale c’è una molteplicità di ragioni, tutte in qualche modo collegate al mutare delle esigenze che si è manifestato col dilatarsi della scolarizzazione. Ma c’è anche il ripensamento di una categoria troppo a lungo considerata un semplice riferimento fisico, quella del tempo della formazione.
Il tempo della formazione
Lo sviluppo dei sistemi scolastici nel corso dell’Ottocento e nella prima metà di questo secolo ha potuto giovarsi di una relativa stabilità degli elementi di contesto che hanno incidenza sulla formazione. In altre parole, lo scarto in termini di esigenze formative fra due generazioni non è stato tale da impedire alla generazione precedente di riconoscersi sostanzialmente nei modi di formazione della generazione successiva. Di conseguenza, è stata forte la tendenza a confermare contenuti e stili di comportamento didattico, creando le premesse per una sorta di naturalismo formativo. Certe scelte non dovevano essere giustificate, per il fatto che rappresentavano la riproposizione di scelte che avevano già mostrato una loro validità in occasioni precedenti. L’uso sociale del prodotto della formazione non appariva contraddittorio rispetto a una simile attesa di stabilità: le attività professionali si modificavano abbastanza lentamente da consentire che gli elementi di novità fossero interiorizzati senza strappi a livello soggettivo, così lentamente che in molti casi il repertorio di competenze collegabile ad una certa attività conservava la propria validità per più generazioni.
La formazione traeva indubbio vantaggio dalla stabilità delle condizioni di intervento: il percorso scolastico di una leva di allievi poteva essere progettato “a freddo”, dal momento che il numero di anni che gli allievi avrebbero impiegato per percorrere l’itinerario scolastico non avrebbe comportato rotture rilevanti né dal punto di vista dei repertori culturali, né da quello degli atteggiamenti del pubblico interessato alla formazione. Ci si trovava insomma di fronte ad una nozione del tempo segnata da una sorta di “continuità” formativa fra le generazioni. Si comprende pertanto come anche sul piano didattico si manifestasse la tendenza alla stabilità delle proposte, e come – passando dai comportamenti “spontanei” degli insegnanti alla razionalizzazione delle proposte propria della didattica – ci si attendesse che soluzioni già seguite con successo potessero essere riproposte indefinitamente: in altre parole, il primato del metodo (che è come dire di una nozione codificata dei comportamenti) ha avuto il significato di una “continuità” nei modi di praticare la formazione.
Oggi nella formazione è rimasto poco o nulla di stabile. Anzi, una componente non marginale delle difficoltà che si incontrano è dovuta proprio alla rapidità con la quale il contesto in cui si interviene appare modificato. Nell’arco di pochi decenni, alla condizione di sostanziale stabilità che prima veniva richiamata si è sostituita una progressiva accelerazione del cambiamento, tanto che oggi non solo è difficile confrontare gli elementi caratterizzanti del contesto formativo di una generazione con quelli della generazione successiva, ma le differenze si manifestano in misura sempre maggiore anche nel breve volgere di tempo necessario ad assicurare ad una leva di allievi la formazione primaria e quella secondaria. I tredici anni che occorrono per passare dall’inizio della scuola elementare alla fine della scuola secondaria superiore sarebbero stati considerati scarsamente significativi rispetto alle scelte formative ancora verso la metà di questo secolo; rappresentano invece attualmente un tempo lunghissimo, che è probabile venga progressivamente percepito come ancora più lungo, seguendo il ritmo incalzante che deriva dall’acquisizione di nuove conoscenze, dai mutamenti nei sistemi di comunicazione, dalle trasformazioni che investono la vita sociale.
È venuta meno, dunque, non solo la continuità fra le generazioni, ma anche quella entro le generazioni. I ragazzi che quest’anno devono sostenere gli esami di maturità hanno incominciato il loro percorso scolastico in un contesto culturale ben diverso da quello attuale. Basti pensare (e non è che un esempio, perché considerazioni analoghe potrebbero essere sviluppate per molti altri settori, per esempio per la biologia) che tredici anni fa la rivoluzione collegata all’introduzione nella vita quotidiana di apparecchiature centrate sui microprocessori era ancora agli albori. È vero che esistevano già i piccoli calcolatori da tavolo, ma si guardava ad essi come a prodigi della tecnologia, non certo come a presenze egemoni nell’insieme delle percezioni comuni. In questi tredici anni è cambiato il modo di scrivere, di documentarsi, di trasmettere e ricevere messaggi, di disegnare, di conservare ed elaborare le informazioni, di fare ricerca. Ognuno di questi cambiamenti va considerato una vera e propria rottura nella continuità formativa per la leva di allievi che stiamo considerando. Ma a rotture ben più consistenti gli stessi allievi andranno incontro una volta usciti dalle scuole superiori, quando – nell’università o nell’attività professionale – dovranno adattarsi a condizioni di studio e di lavoro delle quali al momento si può prevedere con certezza solo che saranno diverse da quelle che ora sono in grado di rappresentarsi.
È sotto gli occhi di tutti con quanta fatica la scuola tenti di adeguare la propria proposta formativa alle nuove condizioni: abituata a cambiamenti lenti, apprezzabili nel volgere delle generazioni, si è trovata quasi all’improvviso a dover fronteggiare autentiche rivoluzioni che si susseguono nel giro di pochi anni. C’è da chiedersi se l’insistenza con la quale molti continuano ad invocare la continuità come criterio di riferimento per la formazione non costituisca un estremo tentativo di rassicurazione, rivolto non tanto a migliorare le condizioni per la formazione degli allievi, ma a sottrarre ansia a chi non può più fondare le pratiche della formazione sulla conferma di comportamenti consueti. Quel che è certo, è che ci troviamo di fronte ad un quadro della formazione segnato non dalla continuità, ma dalla discontinuità, e che non dobbiamo considerare tale condizione eccezionale, ma abituarci ad intervenire in contesti strutturalmente discontinui.
Un modello interpretativo
La rapidità dei cambiamenti che investono la formazione richiede che si disponga di strumenti interpretativi più complessi di quelli che potevano considerarsi accettabili in condizioni di relativa stabilità. In particolare, non possiamo ricorrere a comportamenti già praticati per affermare la validità dei comportamenti ancora da assumere. Ne deriva che l’interpretazione dei fenomeni formativi deve prescindere dalla fenomenologia del momento, per tendere ad individuare la struttura entro cui interagiscono le variabili che caratterizzano un determinato contesto, gli interventi che si attuano al suo interno ed i risultati che si conseguono. Disporre di un modello è necessario anche per sottrarsi alle facili suggestioni interpretative derivanti dal senso comune: per esse, i risultati dell’apprendimento sarebbero direttamente collegabili alle caratteristiche personali degli allievi. B. S. Bloom ha ben individuato il limite di tale interpretazione di senso comune. Nell’attività formativa debbono essere considerate variabili indipendenti (e quindi assumono un significato causale) non solo le caratteristiche personali degli allievi – che Bloom distingue in caratteristiche cognitive e affettive di ingresso -, ma anche la qualità dell’istruzione. Quest’ultima variabile viene definita come l’adeguatezza della proposta didattica a soddisfare le esigenze di apprendimento degli allievi. Non si accetta dunque che i risultati della formazione siano differenziati in modo da corrispondere alla distribuzione delle caratteristiche iniziali degli allievi (come fa il senso comune), ma si afferma l’esigenza di una formazione a misura d’allievo.
Si tratta ora di stabilire quale continuità sia compatibile con le rapide trasformazioni che caratterizzano il contesto attuale della formazione e con il modello di interpretazione delle relazioni fra variabili indipendenti e dipendenti che abbiamo richiamato. Quel che è certo, è che non si può fare affidamento su una continuità di tipo metodologico, perché essa supporrebbe una stabilità introvabile nel contesto attuale e perché farebbe ricadere tutto l’onere dell’adattamento alla formazione sugli allievi. Sarebbero infatti questi ultimi a dover compensare l’intervallo che separa l’offerta formativa dalle loro caratteristiche individuali. Riprendendo la distinzione che prima abbiamo operato fra didattiche centrate sul metodo e didattiche centrate sulla strategia, possiamo ora affermare che – se è improbabile una continuità centrata sul metodo (a meno di non rassegnarsi a risultati di apprendimento scadenti), è possibile ipotizzare una continuità centrata sulla strategia. In questo secondo caso occorre che si verifichino due condizioni:
– la prima è che si sia in grado di seguire l’evolversi delle caratteristiche personali degli allievi, nelle loro componenti cognitive ed affettive;
– l’altra è che nel mare magnum di proposte culturali che la scuola riversa sugli allievi si sia in grado di distinguere le componenti che variano secondo una logica evolutiva da quelle cui arride una subitanea fortuna, cui fa riscontro una altrettanto rapida caduta.
Mentre per ciò che riguarda la prima condizione il problema è configurabile in termine di acquisizione da parte della scuola delle competenze formali e tecniche necessarie per orientare l’offerta didattica verso il soddisfacimento di specifiche esigenze, l’altra condizione richiede una revisione profonda degli atteggiamenti culturali che hanno conseguenze sulle scelte formative.
Chi abbia seguito negli ultimi decenni l’andamento del dibattito sulla scuola non può non aver constatato come essa sia stata caricata di un numero del tutto irragionevole di compiti. Si è teso ad assicurare la presenza nella scuola di ogni elemento culturale e tecnico sul quale si fosse soffermato un interesse da parte di gruppi più o meno ampi, ma si sono anche fatte ricadere sulla scuola funzioni vicarie per ciò che riguarda problemi che per qualche ragione avessero determinato un disagio al quale l’organizzazione sociale non si mostrava in grado di trovare soluzioni. Si è avviata così la corsa verso programmi enciclopedici ai quali non possono che fare riscontro apprendimenti piuttosto superficiali, e che per di più – per la caducità delle proposte – non fanno che segnalare il ritardo con il quale la scuola insegue una corsa alla conoscenza che la vede solo spettatrice. Se si aggiunge l’effetto devastante che hanno avuto i compiti impropri imposti alle scuole, che di volta in volta avrebbero dovuto risolvere i problemi del traffico, della fame nel mondo, delle fonti di energia e della diffusione dell’AIDS, si comprende la crisi di identità che si risolve dalla parte degli insegnanti nell’incertezza sul che fare, e dalla parte degli allievi in una progressiva disaffezione verso il compito di apprendimento.
Occorre invertire questa dinamica perversa. Bisogna operare scelte drastiche, potature spietate nella quantità dei contenuti della formazione, a vantaggio della qualità degli apprendimenti che si perseguono. Vanno elaborate ipotesi per la formazione che siano compatibili con i tempi sempre più ridotti di abbattimento delle competenze settoriali, ed abbiano come traguardo la costruzione di profili culturali solidi per quanto riguarda il possesso di competenze fondamentali, ma insieme flessibili e aperti a nuove acquisizioni.
Agli inizi del grande sviluppo della scolarizzazione nel mondo contemporaneo c’è stata una fortissima richiesta di quelle competenze di base che si riassumevano nella formula “leggere, scrivere e far di conto”. I dati di ricerche effettuate negli Stati Uniti, in Canada e in altri paesi mostrano che questo traguardo, che sembrava conseguito come effetto del generalizzarsi della scolarizzazione, si sta in realtà allontanando, mentre viene crescendo un nuovo analfabetismo, più insidioso perché in qualche modo costituisce un effetto della formazione. Non abbiamo dati per affermare che fenomeni analoghi si verifichino anche in Italia, ma non ne abbiamo neanche per sostenere il contrario. Se non ci si vuol rassegnare a constatare, di qui a qualche anno, perdite nelle capacità alfabetiche come quelle denunciate negli Stati Uniti (dove la regressione verso il semi analfabetismo e l’analfabetismo riguarda ormai il 23% della popolazione adulta), occorre effettuare una scelta di continuità nella formazione centrata su uno sviluppo senza interruzioni della capacità di leggere, di comprendere il testo, di effettuare rappresentazioni verbali e simboliche, di operare con tali rappresentazioni. La continuità va vista come il percorso che conduce ad interiorizzare in profondità le competenze che comunque costituiscono, e si può ritenere che continueranno ancora a lungo a costituire, il fondamento del profilo di una personalità colta.