Ancora una volta l’attenzione delle scuole viene distratta da una aspetto piuttosto marginale dell’attività valutativa, quello relativo alla espressione di giudizi. Chi segua il dibattito recente ricava infatti l’impressione che preliminare a ogni futura valutazione sia la questione del modo in cui vengono espressi i giudizi, se tramite una scala numerica (come i vecchi voti, in uso fino al 1977 per tutto il percorso che dalla scuola elementare conduce alla scuola secondaria superiore, e ora -ma forse per poco – rimasti solo in quest’ultima), oppure ricorrendo a for-mulazioni discorsive (come nelle schede di valutazione introdotte dopo il 1977 nella scuola dell’obbligo), oppure associando una lettera ai vari livelli dell’apprezzamento (è appunto la novità sulla quale si accentra l’interesse di larga parte del pubblico scolastico).
A costo di riuscire sgradevole fin dalle prime righe di questo intervento, dirò subito che il gran rumore che è stato sollevato avrebbe meritato miglior causa, dal momento che la differenza fra il ricorso ai voti, alle espressioni discorsive o alle lettere dell’alfabeto è del tutto apparente. Si potrebbero escogitare altri modi per esprimere il giudizio, anche del tutto inusitati (per esempio, applicare vignette con personaggi sorridenti o più o meno imbronciati), senza che per questo sia giustificato parlare di effettiva “innovazione” nelle concezioni e nelle pratiche della va-lutazione. Al di là infatti delle suggestioni che possono derivare dagli elementi che compongono la scala (i numeri suggeriscono un’idea di misura quantitativa, i giudizi espressi verbalmente possono far pensare a una maggiore accuratezza nella descrizione, le lettere hanno una apparenza di rigore formale), si tratta sempre dello stesso tipo di giudizi, fondati sulla stima della posizione relativa che ciascuna prestazione – o complesso di prestazioni, quando il giudizio si riferisce al livello raggiunto dopo un certo lasso di tempo- assume nei confronti delle altre. In altre parole, se esprimo un giudizio x su una prestazione, e un giudizio y su un’altra prestazione, avrò una delle seguenti possibilità: x è = y o x non è = y.
Nel secondo caso, potrò avere x > y oppure x < y. Se ripeto la stessa operazione un certo numero di volte, confrontando ogni volta un nuovo giudizio con quelli già espressi, formerò una graduatoria, ai cui estremi saranno rispettivamente il giudizio più positivo e quello meno positivo. É come dire che avrò formato una scala, che si identifica dal punto di vista formale per la sua capacità di or-ganizzare gli elementi di cui dispongo in modo che ciascuno sia collegato a quello che lo precede e a quello che lo segue da una relazione di maggioranza o di minoranza. Una scala siffatta si dice ordinale, e corrisponde alle caratteristiche dei voti, delle formulazioni verbali o delle lettere. In termini scolastici, diremo che una scala ordinale consente di affermare se una prestazione sia più o meno soddisfacente di un’altra; non consente invece di stabilire di quanto lo sia. Possiamo dire dunque che x > y ma non di quanto x sia maggiore di y.
In breve, da una scala ordinale non possiamo ricavare quale sia la distanza tra due posizioni, ma solo quale preceda l’altra fra due estremi rappresentati dalla prestazione più apprezzata e da quella che lo è stata di meno. Per individuare la distanza fra due posizioni dovremmo infatti disporre di un criterio quantitativo: dovremmo, in altre parole, essere in grado di definire un intervallo che, ripetendosi attraverso tutta l’estensione della scala, permetta di calcolare la differenza che separa le posizioni che vogliamo porre a confronto. Può esservi un equivoco circa le proprietà della scala se le posizioni nella graduatoria sono indicate con numeri, come è nel caso dei voti: si potrebbe essere tentati di attribuire a tali numeri sia proprietà ordinali (e ciò sarebbe corretto), sia proprietà cardinali (ciò invece sarebbe improprio, per l’impossibilità di definire un intervallo, come prima abbiamo rilevato). In definitiva, i voti sono numeri solo per la loro capacità di indicare un ordine, non per quella di riferirsi a quantità.
Le disposizioni che recentemente hanno stabilito che nella scuola dell’obbligo i giudizi siano espressi mediante lettere, e che alla lettera “A” corrisponda il maggiore apprezzamento, non hanno perciò cambiato la logica della valutazione, ma solo il modo di indicare le posizioni sulla scala. Oltretutto, non si tratta di una novità: i lettori delle strisce di Schulz ricorderanno che Charlie Brown non si limita ad assommare le caratteristiche medie, i buoni sentimenti e la passione per lo sport dei bambini americani, ma che a scuola prende invariabilmente una “C”.
É come se con questa lettera Schulz volesse sottolineare la sua assoluta normalità, intesa nel senso statistico dello stare in mezzo.
Il fatto è che la “C”, che suona come un elemento di identificazione del personaggio, è proprio il risultato di una operazione statistica. Deriva infatti da un modello di valutazione che si fonda sull’uso di prove standardizzate, delle quali cioè siano state predefinite le caratteristiche della distribuzione dei risultati. Secondo tale modello, che risente della suggestione naturalistica secondo la quale la distribuzione dei risultati scolastici sarebbe del tutto simile a quella di altre variabili (per esempio, quelle relative alle abilità mentali) misurate in un numero molto elevato di casi, consiste nel suddividere i punteggi ottenuti dagli allievi in cinque fasce, indicate appunto con le lettere dalla “A” (la fascia più alta) alla “E” (quella più bassa). Poiché le fasce sono cinque, la distribuzione è detta pentenaria.
L’ampiezza di ciascuna fascia è costante, ed è pari a una deviazione standard (è una misura della variabilità della distribuzione: indica pertanto quanto una serie di dati numerici si addensi attorno al valore centrale, costituito dalla media o quanto se ne discosti). La suggestione naturalistica consiste nel fatto che ci si attende che il maggior numero di punteggi sia prossimo a quello medio, e che un numero progressivamente degradante se ne discosti verso l’alto o verso il basso. Una simile distribuzione, anche se in modo imperfetto dal momento che si riferisce a dati empirici, è molto vicina a quella che gli statistici defini-scono distribuzione normale. E infatti proprio dai valori della curva di distribuzione normale sono ricavate le percentuali dei punteggi che nelle prove standardizzate ci si attende che rientreranno in ciascuna fascia.
L’attribuzione dei punteggi alle fasce avviene nel modo seguente:
– si comincia con l’individuare la fascia “C”, nella quale vengono compresi i punteggi che non siano inferiori o superiori a mezza deviazione standard in più o in meno a partire dalla media (dovrebbero essere il 38% del totale);
– si delimitano quindi le fasce “B” e”D”, rispettivamente una deviazione standard sopra e sotto la fascia “C”(ciascuna dovrebbe raccogliere il 24% dei punteggi);
– ai due estremi della distribuzione resteranno le fasce “A” ed “E” (pari al 7% ciascuna).
É evidente che la scala pentenaria ha il senso che abbiamo ricostruito solo se si hanno a disposizione prove standardizzate, come quelle che negli Stati Uniti sono messe a punto dal National Testing Service di Princeton.
In Italia, dove non esiste una tradizione d’uso di prove standardizzate, l’uso della scala alfabetica si configura più sommessamente come un altro modo di attribuire voti.
Può essere utile osservare che la differenza fra la scala pentenaria e quella ora in uso nelle scuole italiane non riguarda tanto l’interpretazione del ruolo della valutazione, quanto le caratteristiche formali dei dati sui quali si fonda l’espressione del giudizio.
Nella scala pentenaria rifluiscono infatti le indicazioni derivanti da una lunga fase della ricerca valutativa, prevalentemente rivolta alla defini-zione dei requisiti che consentono di considerare validi (ossia direttamente collegabili alle capacità e alle conoscenze che interessa sottoporre a verifica) e attendibili (e cioè, per il possibile, esenti dalle differenze che in due o più rilevazioni degli stessi dati possono riferirsi alla instabilità del giudizio di chi effettua la valutazione, o alla scarsa strutturazione della prestazione richiesta) i risultati di una prova, e più ampiamente i giudizi che a partire da tali risultati si esprimono sulle prestazioni degli allievi. Esperienze significative volte a ottenere valutazioni “obiettive” (sarebbe meno ambiguo definirle “a lettura costante”, o “esenti da variabilità collegabile al correttore”) si sono avute, proprio negli Stati Uniti, già a partire dalla prima metà dell’Ottocento.
Valutazione didattica
Fino agli anni Cinquanta la ricerca sulla valutazione, o docimologia, ha centrato la sua attenzione sull’approfondimento delle caratteristiche for-mali della strumentazione valutativa e sullo sviluppo delle procedure che si collegano alla rilevazione e all’elaborazione dei dati. La valutazione era intesa come un aspetto dell’educazione dotato di una propria autonomia. La sua collocazione era terminale rispetto alle attività volte a consentire agli allievi di impadronirsi di un determinato repertorio di abilità e di competenze. La scansione delle attività formative prevedeva pertanto che alla comunicazione di elementi culturali agli allievi se-guisse, a scansioni definite, la verifica degli apprendimenti.
Le discussioni dalle quali abbiamo preso le mosse attorno al modo di esprimere i giudizi sembrano non andare oltre l’interesse per la rilevazione terminale degli apprendimenti, che era propria della prima, lunga fase di riflessione e di ricerca sulla valutazione. Certo, anche nell’esprimere giudizi a carattere finale si poteva, e si può, fidare nell’in-tuito dei singoli insegnanti o affidarsi a riferimenti più solidi, quali quelli offerti dalla sistematica docimologica.
Ma si resta comunque fermi a una interpretazione limitativa e semplifi-cante degli interventi formativi, che ha come conseguenza – nei sistemi scolastici a base sociale ampia, nei quali non intervengono filtri esterni per moderare la dispersione delle caratteristiche personali fra gli allievi – una bassa qualità dell’istruzione.
A partire dagli anni Sessanta ha incominciato a svilupparsi una nuova e più impegnativa direzione di ricerca, centrata sui collegamenti tra didattica e valutazione. Se in precedenza la valutazione aveva avuto come intento solo quello di rilevare la qualità finale dei risultati, il nuovo orientamento della ricerca si proponeva di stabilire stretti nessi funzionali tra le attività volte a consentire agli allievi di acquisire le competenze e le abilità che costituiscono l’obiettivo della formazione e la verifica dei fenomeni in atto. Un contributo di particolare importanza è stato quello fornito da Scriven (1), che ha introdotto nella seconda metà degli anni Sessanta la distinzione della funzione formativa da quella sommativa della valutazione.
Per comprendere l’importanza del contributo di Scriven è opportuno in-trodurre alcune precisazioni relative al lessico della valutazione. Se è vero infatti che tradizionalmente l’attenzione era posta soprattutto sulla valutazione finale, è anche vero che aveva incominciato a farsi strada la consapevolezza che era necessario disporre di elementi valutativi anche all’inizio e nel corso dell’attività didattica. Non era estranea alla cultura valutativa la nozione di valutazione predittiva (gli esami di ammissione alla scuola media, aboliti verso la metà degli anni Cinquanta, avevano appunto lo scopo di predire le possibilità di successo degli allievi che aspiravano a iscriversi a tale tipo di scuola). Per la sua collocazione la valutazione predittiva era anche iniziale, e in quanto tale poteva essere rivolta alla rilevazione del repertorio di competenze e di abilità posse-duto dall’allievo (valutazione diagnostica). I dati della valutazione iniziale potevano essere utilizzati per compensare livelli di competenza considerati insufficienti (valutazione prognostica).
Era consueto parlare di valutazione intermedia, specialmente in relazione alle scansioni dell’anno scolastico, così come si definiva finale la valutazione che sanciva l’esito dell’anno scolastico.
Quello che conta rilevare è che, malgrado la diversa collocazione temporale, tutte queste attività valutative avevano in comune di supporre che qualcosa fosse già avvenuto, e che dunque si trattasse di prenderne atto.
La novità dell’apporto di Scriven è consistita nel proporre una interpretazione dell’attività valutativa capace di creare una rete di riferimenti interagente con le attività didattiche. In altre parole, non si trattava più di limitarsi a prendere atto di una situazione più o meno positiva, ma la valutazione diventava un elemento che concorreva a determinare il quadro stesso. Scriven applicava pertanto alla didattica il principio della retroazione, estendendo alle pratiche formative centrate sull’interazione diretta insegnanti/allievi un concetto che aveva fatto la sua prima apparizione nell’ambito rarefatto dell’istruzione programmata. In particolare, nelle fasi intermedie di una procedura didattica alla valutazione formativa spetta di rilevare l’informazione circa il modo in cui ciascun allievo procede nel suo compito di apprendimento: l’informazione produce una rapida ristrutturazione del percorso, per adeguarlo alle necessità individuali. Nella fase terminale, la valutazione assume carattere sommativo: tende cioè a rilevare la capacità di organizzare nel complesso gli apprendimenti per fornire prestazioni complesse, a rilevare l’adeguatezza della proposta rispetto alle necessità di chi apprende, a verificare la funzionalità della procedura rispetto agli obiettivi che per essa erano stati posti. Se la valutazione formativa riversa l’informazione acquisita sulla procedura in corso, quella som-mativa collega in sequenza i segmenti del percorso, e fornisce elementi utili per programmare interventi successivi. Viene così a determinarsi una sorta di circolarità della valutazione, per la quale essa si integra nell’attività formativa accompagnandone lo svolgimento e determinandone i modi effettivi di attuazione.
Dobbiamo notare che la valutazione formativa, per rispondere all’esigenza di fornire informazioni circa il procedere del percorso di apprendimento, non può che assumere carattere di forte analiticità. Tale carattere determina anche la qualità della scala che meglio risponde a questo scopo. Non si tratta infatti di stabilire relazioni di maggioranza o di minoranza, ma di accertare se ciascun elemento che costituisce la competenza o l’abilità da acquisire sia stato effettivamente acquisito. La scala che risponde a questa esigenza è quella nominale.
Il mastery learning
A partire dalla teoria di Scriven un gruppo di studiosi coordinato da
B. S. Bloom ha definito la strategia di individualizzazione volta al conseguimento di livelli qualitativi elevati di apprendimento per tutti, o quasi, gli allievi nota come mastery learning.
Da un punto di vista strettamente valutativo, il mastery learning (o apprendimento per la padronanza) si fonda su una critica radicale di quello che è stato definito il “feticcio” della distribuzione normale, ossia il tipo di distribuzione che abbiamo considerato come base per l’attribuzione dei punteggi tramite la scala alfabetica “A-E”. Viene respinta l’interpretazione dei risultati scolastici come necessariamente tendenti a distribuirsi normalmente, perché tale distribuzione non sarebbe altro che la spia della mancanza di autonomia nella progettazione della didattica. Quest’ultima non sarebbe in grado di libe-rarsi dai fattori condizionanti costituiti dalle variabili che costituiscono il profilo di ingresso degli allievi: pertanto la distribuzione in uscita non sarebbe che la riproduzione di quella in ingresso. Dal momento che la distribuzione delle variabili in ingresso può considerarsi, almeno sui grandi numeri, tendenzialmente casuale, avremmo un modello di distribuzione casuale anche come riferimento nell’interpretazione dei risultati della formazione. Ciò equivale ad accettare un livello modesto della qualità dell’istruzione, perché la frequenza maggiore dei risultati si presenta schiacciata nelle posizioni intermedie, quelle che negli Stati Uniti, e ora anche in Italia, sono identificate dalla lettera “C”.
L’autonomia del progetto didattico richiede in primo luogo che si definisca il modello desiderato della distribuzione dei risultati: si deve intervenire perché la grande maggioranza degli allievi si collochi ai livelli più alti della distribuzione. É come dire che 1’80-9O% degli allievi consegue la totalità o quasi degli obiettivi di apprendimento propri di un determinato intervento.
Sul piano dell’organizzazione didattica, il mastery learning si presenta come l’unione fra una sequenza lineare, nella quale si alternano momenti di apprendimento e di valutazione formativa, e brevi diramazioni, nelle quali lo scostamento dall’asse principale è rivolto a offrire opportunità di recupero agli allievi che hanno mostrato difficoltà nel fornire le prestazioni richieste nelle prove formative. La novità della proposta è consistita proprio nell’aver composto l’esigenza di assicurare il carattere collettivo della formazione scolastica – e quindi il perseguimento degli obiettivi affettivi e di socializzazione che si collegano all’esistenza di un contesto caratterizzato da intense interazioni personali – con quella di differenziare la proposta didattica allo scopo di offrire a ciascun allievo la proposta di apprendimento di cui ha effettivamente bisogno.
L’analisi della struttura del mastery learning rivela come l’elemento fun-zionale della individualizzazione sia costituito dall’emergere nelle prove formative di difficoltà di apprendimento da parte di singoli allievi. Ciò comporta che l’attività sia accuratamente organizzata, in modo da preve-dere frequenti momenti di verifica. In pratica, questa esigenza viene soddisfatta suddividendo il percorso formativo in segmenti, ciascuno dei quali assorba una quantità modesta di tempo (per esempio, una o due settimane).
Ciascun segmento comprenderà, oltre alle attività comuni di istruzione, un momento per la verifica analitica degli apprendimenti conseguiti dagli allievi, alla quale, per le difficoltà effettivamente accertate, fa immediatamente seguito l’offerta di un percorso compensativo. L’individualizzazione consiste appunto in tali percorsi, che sono funzionali all’obiettivo del conseguimento da parte degli allievi di livelli terminali omogenei di profitto. Rispetto alle impostazioni tradizionali della didattica, che erano centrate su un’unica proposta formativa, il mastery learning realizza un ribaltamento per ciò che riguarda l’interpretazione del ruolo della scuola e di quello degli allievi: se alla scuola spettava di organizzare la proposta di apprendimento e agli allievi di adattarsi a essa, ora gran parte dell’onere dell’adattamento viene assunto direttamente dalla scuola.
Non è più scontato che la proposta didattica sia comunque valida perché elaborata con riferimento a un modello di allievo provvisto di caratteristiche “centrali”, ma si sottopone a verifica tale validità in relazione alle caratteristiche degli allievi.
Per una valutazione analogica
La struttura del mastery learning esalta la funzione della valutazione nel processo formativo. Dal momento che viene meno il riferimento alle tendenze centrali nella definizione dell’allievo virtuale al quale è rivolta la proposta di istruzione, perde in gran parte significato una logica valutativa centrata sulla comparazione delle prestazioni fornite dagli allievi sia quando essa si esprima nella forma del raffronto intuitivo consentito dalla integrazione delle esperienze sia quando si basi sul-l’elaborazione di dati statistici. In entrambi i casi, le differenze fra gli allievi vengono infatti come cristallizzate per effetto di una cattiva induzione,che porta alla rappresentazione di una realtà semplificata. Non c’è dubbio che si trattasse di una semplificazione rassicurante, per il fatto che consentiva di iterare comportamenti consueti. In altre parole, una realtà semplificata non richiéde di assumere decisioni, non crea ansia, ma al contrario offre il conforto che deriva dalla conferma delle esperienze già effettuate.L’individualizzazione è possibile invece a condizione che si sia in grado di as-sumere con frequenza le decisioni necessarie a indirizzare la formazione nella direzione desiderata. Sarà bene precisare che in questo contesto assumiamo per decisione il significato che è venuto precisandosi nell’ambito della”teoria delle decisioni”.
Il processo decisionale ha inizio con la percezione di un disagio rispetto alla situazione corrente, alla quale deve seguire una fase volta a razionalizzare gli elementi del contesto (definizione del problema) al fine di consentire l’elaborazione di ipotesi di risoluzione. Perché vi sia decisione, le ipotesi debbono essere almeno due: la scelta fra le ipotesi dipende dalla capacità di prerappresentarsi il successivo corso degli eventi. Sulla qualità della decisione incidono sia gli elementi di informazione compresi nella definizione del problema, sia quelli di cui si dispone per la rappresentazione degli eventi. Dipende infatti dalla quantità e dalla qualità delle informazioni se la decisione assume carattere di certezza o se a essa si connette una misura maggiore o mino-re di rischio. Spetta alla valutazione fornire tali informazioni: dalle prati-che valutative discende pertanto un primo contenimento del rischio. Un contenimento ulteriore deriva dalla capacità di preraffigurare il corso degli eventi successivi.
Il mastery learning, attraverso la valutazione formativa e quella sommativa, si configura come una strategia nella quale l’individualizzazione discende da catene di decisioni alternative. Nello sviluppo della procedura di apprendimento, la corrispondenza o meno di ciascuna prestazione all’obiettivo di apprendimento predefinito crea una situazione dicotomica, che viene risolta con la continuazione del percorso lungo l’asse principale se la prestazione è corretta, e con l’instradamento verso la diramazione per il recupero se non lo è. La preraffigurazione del corso degli eventí è abbastanza buona se la decisione consiste nel proseguire lungo l’asse principale, ma nascono dubbi – in altre parole, aumenta il rischio – se l’allievo viene dirottato verso il recupero. In particolare, i dubbi riguardano i casi in cui gli allievi forniscano nelle prove formative un numero elevato di prestazioni scorrette, e perciò debbano ricorrere in misura più ampia alle procedure di recupero.
Viene infatti a realizzarsi una frammentazione del percorso, che spetta poi all’allievo ricomporre all’interno dell’asse principale di sviluppo della proposta. É come dire che gli allievi già in difficoltà incontreranno una difficoltà aggiuntiva per il fatto di dover ricomprendere in un quadro unitario elementi di competenza e di abilità acquisiti nelle frazioni individualizzate del percorso.
La qualità della decisione migliorerebbe se fosse possibile far riferimento, nella scelta fra le ipotesi disponibili per la decisione, a informazioni che giovino alla prerappresentazione del successivo corso di eventi. In tal caso, la difficoltà di apprendimento potrebbe in larga misura essere prevista prima che l’attività abbia luogo, e perciò l’individualizzazione si fonderebbe non sulla constatazione dell’errore (che comunque corrisponde a un insuccesso, sia pure parziale, da parte dell’allievo), ma sulla probabilità di errore. L’individualizzazione non si tradurrebbe dunque in interventi prevalentemente compensativi, ma nella differenziazione preventiva del percorso di apprendimento. I vantaggi sarebbero due: il primo consisterebbe nella possibilità per ciascun allievo di seguire un percorso meno frastagliato, completamente definito per soddisfare le sue esigenze; l’altro nel risparmio di tempo (ma sono evidenti le implicazioni sul piano della disposizione affettiva nei confronti del compito di apprendimento) conseguente al diminuire della necessità di far ricorso a procedure compensative.
Rispetto alla individualizzazione centrata sulla rilevazione tempestiva di difficoltà di apprendimento che si siano già tradotte in errori nelle prestazioni (com’è quella attuata attraverso il mastery learning), la nuova linea che qui stiamo considerando suppone che l’errore possa essere per lo più evitato attraverso la differenziazione preventiva dei percorsi di apprendimento.
Un modello valutativo funzionale all’anticipazione della diagnosi della difficoltà di apprendimento è quello alla cui elaborazione e verifica sperimentale sto lavorando da alcuni anni, insieme ad alcuni miei collaboratori. Ho chiamato tale modello valutazione analogica: in esso si fa infatti ricorso alle proprietà dell’analogia (2).
Nell’analogia la coppia di elementi noti costituisce il foro, mentre la coppia di elementi da chiarire costituisce il tema. L’analogia può essere utilizzata in chiave valutativa se utilizziamo il foro per avere indicazioni che completino il tema. In altre parole, se propongo un quesito nel quale gli elementi siano costituiti da un contenuto già disponibile e dalla operazione necessaria a fornire la prestazione che si riferisce a tale contenuto, e se tale prestazione è presente anche nelle operazioni che l’allievo dovrà effettuare per fornire una prestazione che costituirà l’obiettivo di una successiva attività di apprendimento, posso stimare per via analogica se fornire tale prestazione sarà per ciascun allievo più o meno difficile.
Da queste premesse ha avuto origine la definizione di un modello didattico indicato con l’acronimo DIVA (Didattica Individualizzata con Valutazione Analogica), una cui prima verifica sperimentale ha avuto luogo nell’autunno del 1993 a Bergamo e una seconda a un anno di distanza nel Lazio (3). Gli esperimenti, che hanno interessato rispettivamente una quindicina di classi del primo anno della scuola se-condaria superiore nella provincia di Bergamo e una quarantina del primo anno degli istituti professionali statali nel Lazio, hanno avuto per contenuto l’insegnamento della matematica. Gli esperimenti si sono proposti di definire una strategia didattica tendente a creare una effettiva uguaglianza delle opportunità formative, attraverso la messa a punto, per gli allievi, di mate riali di studio individualizzati da utiliz-zarsi nelle prime sei settimane dell’anno scolastico.
L’ipotesi che gli esperimenti hanno inteso verificare riguardava la possibilità di compensare le differenze nelle abilità matematiche che si riscontrano all’inizio della scuola secondaria superiore attraverso la proposta di curricoli personalizzati nella prima parte dell’anno scolastico. Per la verifica dei risultati sono stati formati opportuni gruppi di controllo.
Sia agli allievi del gruppo sperimentale, sia a quelli del gruppo di controllo è stata somministrata preliminarmente una prova di accertamento del livello delle competenze iniziali in matematica. Agli allievi del gruppo sperimentale è stata quindi somministrata una speciale prova di valutazione analogica. I dati risultanti dalla prova analogica sono stati quindi elaborati automaticamente e sulla loro base è stato predisposto in tempi brevissimi un curricolo individualizzato, con i relativi “pacchetti” di materiale didattico, composti da testi di studio, esercizi, prove di verifica.
Il sistema automatico progettato e realizzato presso la Cattedra di Peda-gogia sperimentale della Terza Università degli Studi di Roma in vista dell’effettuazione di questi esperimenti consente, a partire dai dati ottenuti tramite una prova analogica, di produrre più di 385 milioni di varianti di percorsi di apprendimento, e di fornire il materiale didattico più idoneo per soddisfare le necessità di ciascun allievo, oltre a un testo di riferimento necessario all’insegnante per “gestire” la propria classe nelle sei settimane in cui, anche se in un contesto collettivo, l’attività di apprendimento avviene in una parte consistente in forma indivi-dualizzata.
I risultati finora ottenuti sono stati estremamente promettenti, con un rilevante incremento del profitto del gruppo sperimentale, e certamente tali da incoraggiare a proseguire nell’impegno sperimentale.
Note
(1) Cfr. M. Scriven, Methodology of Evaluation, in R.W. Tyler, R.M. Gagné, M.Scriven, Perspectives of curriculum evaluation, Rand Mc Nally, Chicago, 1967,
(2) Cfr. B. Vertecchi, E. Nardi, M. La Torre, Valutazione analogica e istruzione individualizzata, La Nuova Italia, Firenze, 1994.
(3) Per una descrizione dettagliata del modello e degli esperimenti, si veda “Cadmo, Giornale italiano di pedagogia sperimentale”, II, 5-6,1994.